giovedì 11 aprile 2013

Serata inaugurale Biennale Democrazia

Ieri sera si è tenuta la serata inaugurale della Biennale Democrazia, appuntamento che amo sempre documentare. Ha aperto la rassegna il Presidente della Camere dei Deputati Laura Boldrini.
Al termine della sua lezione inaugurle c'è stato un bellissimo omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della sua scomparsa, intitolato "L'illogica utopia" a cui sono intervenuti: Luca Barbarossa, Bruno Maria Ferraro, Enzo Iacchetti, Andrea Mirò, Michele Serra, Paola Turci e con la partecipazione straordinaria di Sandro Luporini.



























Vorrei riportare l'intero discorso della Presidente Boldrini, in quanto è stata una vera e propria lezione sulla democrazia.


Presidente Zagrebelsky, gentili ospiti, care amiche ed amici,
se c’è una parola a cui la storia dell’umanità deve molto, una parola a cui devo molto anch’io, il mio impegno professionale e oggi questa carica che ho l’onore di ricoprire, bene, quella parola è proprio utopia.
Perché l’utopia racconta il dubbio. E senza dubbi, la politica sarebbe solo un  fotogramma  immobile,  un  esercizio  di  vanità,  una  condizione  di solitudine.
L’utopia  è  ricerca.  Cioè  misurarsi  con  i  propri  limiti,  averne  rispetto  e pudore, mai paura. Accettare la sfida del cambiamento che è la promessa più alta della democrazia.
L’utopia è il viaggio: l’irrequietezza del mettersi in cammino, lasciare porti sicuri per spingere lo sguardo oltre la linea dell’orizzonte. Perché ciò che conta,  come  scriveva  il  poeta  greco  Kavafis,  è  partire:  “…quando  ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze…”
Senza  questa  condizione  faticosa  e  stimolante,  senza  l’utopia  di  un prossimo  viaggio,  che  cosa  sarebbe  stato  della  nostra  storia?  Come avremmo  potuto  immaginare  che  un  giorno  il  presidente  della  più importante nazione del mondo sarebbe stato il figlio di un africano, senza il dovere di quell’utopia?
E se la mia storia mi porta oggi a presiedere la Camera dei Deputati, forse è anche il frutto delle molte silenziose e tenaci utopie a cui ho cercato di dar voce per più di vent’anni, dal diritto degli ultimi e dei perseguitati di non essere per sempre ultimi e vittime, alla fame di speranza e di vita di chi si è messo in viaggio senza sapere se mai sarebbe arrivato. Penso al viaggio  di  centinaia  di  migliaia  di  migranti  e  rifugiati  a  cui  l’Alto Commissariato  delle  Nazioni  Unite  e  altre  organizzazioni  provano  ogni giorno a restituire dignità e futuro.
Certo,  la  storia  ci  insegna  che  spesso  in  politica  l’utopia  appare  come un’eresia. Eppure, quale utopia è oggi più necessaria se non immaginare un’Italia  in  cui  diritti,  eguaglianze,  dignità  civili  siano  finalmente  parole certe, regole riconosciute, principi rispettati?
Viviamo in un tempo che non è affatto equo. Nel mondo l’1% degli uomini possiede il 40% di tutte le risorse del pianeta. Le tre persone più ricche del  mondo  hanno  lo  stesso  peso  economico  dei  600  milioni  di  essere umani più poveri. Senza andar lontano, il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è uguale alle risorse degli otto milioni di italiani più poveri.
Se la politica non assume su di sé la sfida di curare queste ferite di civiltà, se  non  saremo  capaci  di  affrontare  l’utopia  urgente  e  possibile  di  un paese  e  di  un  mondo  più  equi,  di  quale  buona  politica  staremmo parlando?
La  crisi  in  corso  ha  prodotto  conseguenze  drammatiche  sulla  vita  delle persone, ma nella sua durezza ci costringe a ridefinire i nomi e i giudizi  che  attribuiamo  ai  fatti  della  politica  e  della  società.  Ci  spinge  ad accorciare la distanza che separa l’utopia dalla possibilità.
Faccio tre esempi soltanto, tra i molti che ci offre il contesto nazionale ed internazionale.
Il  tema  delle  spese  militari,  fino  a  qualche  tempo  fa  oggetto  –  nel panorama italiano – di critiche che rimanevano circoscritte agli ambienti del pacifismo. Oggi la richiesta di riduzione  di quelle spese si presenta
ben  più  diffusa,  al  punto  che  nei  mesi  scorsi  diverse  forze  che sostenevano il governo si sono attribuite il merito dei tagli più cospicui.
Perché  questo  cambiamento?  Perché  la  crisi  economica  ha  spinto  a guardare in modo diverso gli investimenti militari. Un dibattito, fino a ieri considerato  “ideologico”,  ha  assunto  oggi  la  concretezza  di  un  bivio: volete  voi  qualche  cacciabombardiere  in  più,  oppure  quel  denaro  può essere  investito  per  sostenere  la  spesa  sociale?  L’utopia  di  un  mondo
meno  armato  quindi  si  è  finalmente  spogliata  di  ogni  astrattezza  per diventare stringente discussione su una possibile destinazione alternativa delle risorse pubbliche.
Secondo esempio. Il dibattito sul sistema bancario. La critica alla finanza speculativa  è  stata  per  lungo  tempo  patrimonio  di  gruppi  considerati radicalmente  alternativi  al  sistema  economico  capitalistico.  Anche  in  questo caso la crisi ha ribaltato il nostro punto di vista: oggi è naturale chiedere che le banche tornino ad una funzione di sostegno alle imprese e  alle  famiglie,  ed  è  altrettanto  naturale  condannare  le  speculazioni finanziarie  che  in  pochi  secondi  possono  spingere  un  Paese  e  i  suoi cittadini sull’orlo del baratro.
Terzo esempio. Le questioni dell’ambiente. Veniva considerato fuori dalla storia  chi  si  permetteva  di  criticare  il  modello  di  sviluppo  dominante, chiedendo  che  venisse  arginato  il  consumo  illimitato  di  territorio, l’edificazione  senza  regole,  la  monetizzazione  delle  bellezze  naturali  a prezzo del loro sfregio. In questo caso, più che la crisi economica è stata l’evidente devastazione dell’Italia a farci aprire gli occhi. La protezione del territorio  non  è  il  sogno  bucolico  del  ritorno  in  Arcadia,  ma  l’unico
modello  di  sviluppo  realisticamente  praticabile  in  un  Paese  dalle straordinarie ricchezze ambientali qual è il nostro. La presunta “utopia” di uno sviluppo ecosostenibile si è rivelata la strada lungo la quale avviare la
nostra ripresa.
E non era forse considerata un’utopia, fino a pochi mesi fa, affrontare il nodo  dei  costi  della  politica  come  sto  provando  a  fare  adesso  da presidente  della  Camera?  Anche  per  questo  il  mio  primo  atto  è  stato quello di ridurre in modo significativo la retribuzione e le prerogative che mi  erano  assegnate.  Il  secondo  atto  è  stato  quello  di  chiedere  a  tutti  i deputati  titolari  di  cariche  istituzionali  di  fare  altrettanto:  e  la  loro risposta è stata positiva. E continueremo su questa strada. Non lo sto facendo, credetemi, per cercare un facile consenso e neanche soltanto  per  esigenze  di  risparmio.  Lo  faccio  perché  in  un  tempo  così difficile per la vita delle famiglie italiane, quando in tanti sono costretti a sacrifici e risparmi al limite delle loro possibilità, soprattutto le istituzioni, soprattutto  chi  fa  politica  deve  dare  un  segnale  concreto  di  rigore  e  di limpidezza.
Se avessi avuto un dubbio sulla necessità di queste scelte di rigore e di sobrietà,  la  tragedia  di  Civitanova  Marche  lo  avrebbe  sicuramente spazzato via.
Romeo Dionisi, Anna Maria Sopranzi, suo fratello Giuseppe, tre persone per  bene,  oneste,  che  si  sono  trovate  da  sole  a  sopportare  il  peso materiale e morale della loro povertà.
Morire per miseria e per dignità ferita è un’ingiustizia intollerabile!
Quando  ci  si  toglie  la  vita  perché  si  è  diventati  improvvisamente  e insopportabilmen-te  poveri,  quando  s’è  smarrito  anche  il  diritto  alla speranza - e in Italia è già successo troppe volte - significa che la società non ha più reti di protezione sociale adeguate. E significa che si è troppo diffusa l'idea della povertà come qualcosa di cui vergognarsi, l'idea cinica secondo la quale se sei povero è colpa tua che non sei abbastanza bravo, scaltro, furbo. Che non sai farti valere come invece saprebbero fare quelli che si vantano delle loro ricchezze, raggiunte non importa come. E' vero o no che tanti, troppi in Italia la pensano così?
Eppure la qualità di una persona non si evince dal reddito.
Eppure,  scolpito  nello  spirito  profondo  della  nostra  Repubblica,  c'è quell’articolo 3 della Costituzione che ho scelto come bussola per il mio operare.
Lasciate che lo rilegga con voi: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e  sono  eguali  davanti  alla  legge,  senza  distinzione  di  sesso,  di  razza,  di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,  che,  limitando  di  fatto  la  libertà  e  l'eguaglianza  dei  cittadini, impediscono  il  pieno  sviluppo  della  persona  umana  e  l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Questo  articolo  non  ci  ricorda  soltanto  che  tutti  siamo  uguali:  ci  dice anche che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona di realizzarsi e di partecipare alla vita del Paese. E la Repubblica non è una entità astratta: siamo noi, siete voi, sono le nostre istituzioni, le forze politiche e sociali, le scuole, le Università, i luoghi del lavoro e della produzione.
Purtroppo  le  diseguaglianze  sono  aumentate  negli  ultimi  anni,  non diminuite. E la crisi in corso ha moltiplicato e ingigantito gli ostacoli da rimuovere.  Penso  all’articolo  3  quando  leggo  i  dati  resi  noti  poche settimane  fa,  secondo  i  quali  57mila  studenti  hanno  abbandonato l’Università  italiana  negli  ultimi  dieci  anni.  E’  un  numero  che  più drammaticamente  di  ogni  altro  ìndica  come  suonino  vuote  per  i  nostri giovani le promesse di uguaglianza che noi, loro genitori, avevamo potuto considerare credibili.
Presidente Zagrebelsky, tutto avrei potuto immaginare, appena un mese fa,  tranne che sarei stata chiamata all’alto compito che oggi mi onora.
Dopo  i  primi  momenti  di  sorpresa  e,  perché  negarlo,  di  spavento,  ho cercato di concentrare tutte le mie energie su una missione che considero prioritaria  su  ogni  altra:  dare  il  mio  contributo  per  ricucire  il  rapporto profondamente lacerato tra i cittadini e le istituzioni.
Ho creduto di dover prendere sul serio la critica che sale dal profondo del Paese verso i partiti e verso la politica. E non mi sentirete mai liquidare questa  critica  come  “antipolitica”.  Non  perché  non  veda  il  pericolo  di populismi autoritari e illiberali: ne è piena l’Europa, purtroppo. Ma questa domanda di trasparenza e di  onestà non è nemica della buona politica, anzi, ne rappresenta l’essenza. Così come non è una svagata protesta il disgusto  diffuso  verso  la  corruzione,  lo  sperpero  di  denaro  pubblico, l’esibizione ostentata e volgare del potere.
Bene: quella richiesta di trasparenza è anche la mia. E quell’intolleranza verso il malaffare è anche la mia. E’ per questo che, nelle prime settimane di Presidenza, ho voluto mandare un segnale chiaro all’opinione pubblica e  alle  forze  politiche,  presentandomi  con  un  biglietto  da  visita  che contribuisca a far sentire meno lontane le istituzioni e a far percepire le aule del Parlamento come “la casa della buona politica”.
Ma  è  anche  il  tempo  di  affermare,  con  altrettanta  nettezza,  che  l’idea della  “politica  gratis”  è  un’utopia  negativa,  un  modello  che  dobbiamo smettere  di  inseguire  anche  se  esso  conta  ancora  su  notevoli  sostegni mediatici.  La  politica  non  può  essere  raffigurata  solo  o  principalmente come la competizione tra chi taglia di più i costi. Ed è una banalità quella che  fa  il  conto  degli  euro  che  si  “sprecherebbero”  in  ogni  seduta parlamentare,  come  se  il  confronto  tra  le  posizioni,  l’approfondimento anche faticoso dei problemi, fosse una permanente dissipazione di tempo e di denaro.
Così  come  non  mi  convince  un’altra  semplificazione,  così  di  moda  in questi  tempi,  che  vorrebbe  la  politica  esclusivamente  finanziata  dai privati. Intendiamoci, sento forte la necessità di regole più rigorose delle attuali, ma continuo a pensare che non debba essere indispensabile avere generosi finanziatori per poter concorrere alla vita democratica. Perché la buona politica sta nell’esercizio responsabile delle proprie funzioni: liberi, anzitutto, da ogni condizionamento.
Mi sembra invece un’utopia necessaria, alla quale guardare con grande attenzione, quella di una partecipazione sempre più estesa dei cittadini, grazie  anche  agli  strumenti  della  Rete.  La  società  italiana  mantiene, nonostante  la  crisi  che  colpisce  anche  i  soggetti  della  rappresentanza sociale e politica, un alto livello di partecipazione. E stasera tributeremo il giusto omaggio all’artista che più di ogni altro ha saputo ricordarci quale sia il nesso inscindibile tra partecipazione e libertà.
E’ la partecipazione che ci rende cittadini consapevoli, come ci vuole la nostra Costituzione, mentre una forte spinta economica e comunicativa, che investe tutte le società, vorrebbe fare di noi (e soprattutto dei nostri ragazzi) consumatori in servizio permanente effettivo, la cui cittadinanza si esplica al massimo nella deposizione di una scheda nell’urna.
La  rete  offre  nuove  e  grandi  possibilità  di  informazione  e  di coinvolgimento, ma non mi attrae una presunta democrazia diretta che funzioni secondo lo schema “uno schermo, un voto”. Molto può essere
fatto  per  potenziare  gli  strumenti  della  democrazia  parlamentare, accorciando le distanze che separano rappresentanti e rappresentati.
Spero  che  possa  essere  presto  portata  alla  discussione  della  Camera  la proposta che rafforza l’iniziativa legislativa popolare. Fin qui lo strumento non  ha  prodotto  risultati  apprezzabili:  in  passato  i  testi  sottoscritti  da almeno 50mila cittadini sono rimasti troppo spesso a prender polvere nei cassetti  parlamentari,  non  avendo  a  disposizione  alcuna  corsia preferenziale.  Dobbiamo  impegnarci  a  modificare  i  regolamenti parlamentari, in modo da rendere rapido e obbligatorio l’esame del testo
sottoscritto  da  un  numero  adeguato  di  cittadini  e  per  consentire  ai promotori  di  quel  disegno  di  legge  di  poter  seguire  direttamente  l’iter della proposta.
Allo  stesso  scopo  mira  anche  la  “campagna  d’ascolto”  che  intendo promuovere  alla  Camera  non  appena  saranno  stati  superati  i  prossimi, rilevanti  passaggi  istituzionali.  Sarà  l’incontro  con  i  soggetti  sociali, economici, culturali che incarnano le questioni più acutamente avvertite dalla nostra comunità civile. L’apertura della “casa della buona politica” a chi  lavora  ogni  giorno  alla  soluzione  dei  problemi.  Mi  piacerebbe  che questa apertura potesse accompagnare l’attività legislativa (una volta che –  spero  prestissimo  –  essa  potrà  svilupparsi  a  velocità  piena),  in  un intreccio  fruttuoso  con  gli  strumenti  ordinari  delle  audizioni  nelle Commissioni parlamentari.
E  dobbiamo  impegnarci  a  ritrovare  un  rapporto  fecondo,  intenso,  leale con  l’Europa.  L’Europa  immaginata  nel  manifesto  di  Ventotene,  quella straordinaria,  preziosa  utopia  fabbricata  nella  durezza  del  confino fascista. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi intuirono che l’unico rimedio alle dittature,  alle  guerre,  a  quel  tempo  infelice  di  uomini  contro  sarebbe stato un grande progetto federalista europeo. E’ la sfida che dobbiamo raccogliere,  dopo  anni  di  reticenza  e  di  disimpegno:  restituire  all’Italia l’orgoglio  di  battersi  per  gli  Stati  Uniti  d’Europa.  Un’Europa  dei  diritti, delle opportunità, delle pari dignità. Un’Europa nella quale i nostri figli si sentano  a  pieno  titolo  cittadini,  siano  nati  a  Palermo  o  a  Berlino.
Un’Europa che sappia fare della solidarietà e della coesione sociale non solo voci di spesa ma primati della propria azione politica. Un’Europa che sappia  difendere  e  rinnovare  il  suo  sistema  di  welfare,  giustamente definito come “la più straordinaria invenzione di ingegneria sociale degli ultimi 150 anni”.
Un’Europa  che  metta  al  centro  della  propria  architettura  istituzionale e civile i beni comuni, che sono valore fondativo di ogni democrazia: l’aria, l’acqua,  l’ambiente,  la  cultura,  la  conoscenza…  Eppure  in  Italia  i  beni  comuni  sono  stati  spesso  svenduti,  trascurati,  piegati  alle  logiche  del profitto. Siamo tra i paesi d’Europa che meno investono nella cultura e nell’istruzione. Ma siamo anche un paese che, attraverso un referendum, ha  saputo  restituire  all’acqua  pubblica  la  sua  inviolabilità  di  bene collettivo, risorsa di tutti, dignità di ciascuno.
Quel  referendum,  e  il  milione  e  quattrocentomila  firme  che  lo  hanno accompagnato,  sono  stati  un  gesto  di  sana  indignazione  collettiva.  Ha ragione Salvatore Settis quando scrive che per tenere viva la speranza e darle  forma  dobbiamo  coltivare  la  nostra  indignazione,  non  spegnerla come se riguardasse solo il passato. Anche in questo sento forte il dovere della politica e delle sue istituzioni: dobbiamo affrancare i cittadini dalla rassegnazione e dall’abitudine, far sentire loro che partecipare, proporre, scegliere, decidere, vigilare rappresentano il pieno esercizio del diritto di cittadinanza. Dal quale nessuno di noi può prescindere.
In  conclusione,  lasciatemelo  dire:  anche  la  democrazia,  nella  sua concezione più alta e compiuta, rischia di apparire un’utopia. Ma come potremmo sottrarci a questa sfida sapendo che il diario quotidiano di ogni democrazia è scritto sulla vita materiale, faticosa di milioni di donne e di uomini? Prendersi cura di quelle vite e di quelle fatiche non è un’utopia: è il  segno  della  buona  politica.  A  Montecitorio  come  nel  più  sperduto villaggio d’Africa.
Pensate a Kogelo, appena un punto sulla carta geografica del Kenia, un gruppo di case appoggiato sulla linea dell’equatore. Da Kogelo partì negli anni Cinquanta un uomo. Suo figlio oggi è il presidente degli Stati Uniti d’America.
Ecco, ragazzi, cos’è la nostra saggia utopia!
Vi chiedo di mettere da parte ogni cinismo e di osare! Volate alto, non abbiate paura! Non abbiate timore di esporre il vostro sguardo alle cose di  questo  mondo.  Riprendetevi  il  sogno,  i  valori  della  solidarietà,
dell’eguaglianza,  della  dignità  umana.  Perché  questi  principi  non  sono solo parole virtuose: è in essi, dentro di essi, il segno della vita che verrà.
Di una politica responsabile. Di una felice democrazia.